Giuseppe Raimondi «Giuseppe in Italia» (1950)

Recensione a Giuseppe Raimondi, Giuseppe in Italia (Milano, Mondadori, 1949), «Letteratura e arte contemporanea», a. I, n. 1, Roma, gennaio-febbraio 1950, pp. 75-77.

Giuseppe Raimondi «Giuseppe in Italia»

Mentre si deve subito riconoscere la provenienza squisitamente letteraria di questo bel libro di Raimondi in una direzione ben dichiarata dai riferimenti e dai ricordi dell’autore e da sicuri segni stilistici, tanto che Giuseppe diventa un testimone ineliminabile della nostra letteratura fra le due guerre e quasi una introduzione preziosa agli anni letterari fra la preistoria della «Ronda», l’esaurimento di «Solaria» e un certo côté di «Letteratura», è anche contemporaneamente doveroso indicare la radice non vistosa, ma sicura, della vitalità e dell’originalità di queste pagine legate in un ritmo denso e continuo che supera il piú comune limite di saggista rondista pur risentito in tanti particolari costruttivi.

Nella pagina stipata di impressioni, di sottili evocazioni d’immagini, di rapprese allusioni critiche (autobiografia poetica e appoggio critico di testi illustri ed esemplari è tipico procedimento rondistico), l’estrema ricchezza di temi, che potrebbero apparire uniti per semplice accostamento, è sorretta da un motivo unitario di esperienza e sofferenza vitale che non può scadere a semplice pretesto di calligrafiche variazioni; se non come in senso assoluto ogni esperienza di vita nel farsi poesia diventa pretesto di una nuova vita di segni puri, di coerenza nuova. Non è tanto il particolare mito dell’artigiano, dello specialista in “chauffage central” che è pur cosí bene in accordo con il tecnico di personaggi (Domenico Giordani, Signor Teste), quanto la viva sostanza del popolano sviluppatosi alla letteratura dentro una particolare storia, dentro un tempo e una città e persino dentro una passione non finta, non astratta.

E quindi come il libro è ben piú di un documento politico e la vittoria è indubbiamente del letterato, del prosatore teso a risultati di stile, esso è vivo e quei risultati son tanto piú puri e liberi senza diventare rabeschi decorativi, propri nella sua profonda e naturale storicità. Vita per la letteratura e vita in una speciale e sincera società si aiutano nella poesia della memoria che esplicitamente Raimondi invoca in questa sua prova fondamentale che riassume e supera i precedenti acquisti di saggista.

Mi pare che, a togliere il particolare fermento, diciamo cosí “socialista”, al motivo del tempo e della memoria che sorregge nel suo ordine fantastico e storico una serie cosí rara di pagine riuscite di intelligenza e di gusto, si finirebbe per accentuare il pericolo di un eccessivo sapore, di afa quasi in quella scrittura fitta, insistente, lucidamente minuta e granulosa che si rivela tanto piú efficace quanto piú si appoggia ad una continuità sentimentale di storia personale, e immersa nella storia di un tempo concreto.

Gli avvenimenti in relazione con la sofferenza e l’esperienza di tutta una società non funzionano solo come possibilità di battute di distacco nel pigro fluire della memoria e come richiami della letteratura a una realtà piú urgente («Era di cattivo gusto continuare in un gioco di allusioni letterarie, d’ironia, di finzioni dell’intelligenza. Si parlava di guerra. E fu ancora la Guerra»), ma serrano coerentemente una ricerca di prosa su di una esperienza letteraria e vitale. Dichiarazioni come questa, «L’artista, anzi l’uomo, è in cerca di una verità fondata sul reale e sull’umano… L’uomo non ha che le proprie mani. Con queste, e con qualche fatica, egli tende a fermare le sue emozioni nel tempo e nello spazio, in modo preciso, materiale. Una collocazione di sentimenti in un mondo di materia. L’arte consiste nel cogliere un rapporto stabile, fisico, tra la sua emozione e il corso della materia», aiutano a capire (e son naturalmente piú aspirazioni di poetica che pretese di teoria) il nesso che il lettore è sollecitato a sentire fra la sensibile ricerca artistica di pagina assoluta e la volontaria presenza di testimonianza di vita.

E certo per la storia dell’“umile Italia” popolare e moderna, onesta ed umana, nel colpo di arresto brutale inferto dal tradizionalismo e dal capitalismo conservatore e violento, questo libro di un letterato di estrema élite val piú di tanti documentari di politici puri, come il risultato artistico generale guadagna nei suoi pericoli di presunzione non ingiusta, ma troppo letteraria («L’Italia, questa vecchia Italia, se diventerà Europa un giorno, tra popoli e uomini nuovi, ritroverà nella polvere i nostri miserabili saggi…») dall’appoggio (profondamente narrativo e non episodico) di una precisa storia di sentimenti e di vicende: «Quel giorno, con mio padre, eravamo in Piazza. Dal Bar Ponzio uscirono, diretti in Palazzo, i capi socialisti. Salutammo Zanardi. Con mio padre, come inchiodati da un presagio di tristezza, restammo seduti al tavolino di marmo. Passarono le musiche, e i canti degli operai. Sfilarono, nella luce incerta dell’autunno, le rosse bandiere, su cui l’ombra metteva qualcosa di grigio e di giallo. Quel giorno non risplendeva il rosso della Rivoluzione. Trascorse un lento tempo; finché, tra grida, s’intesero i colpi sordi delle armi. Incominciava il fascismo».

E quale fascino in tutto il primo tempo del libro (sino alla morte del padre), in cui le esperienze del giovane letterato, letture e amicizie, sorgono senza sforzo nell’aria mite e seria della vita popolana, dei ricordi di gioventú in pagine di rara complessità e di equilibrio sicuro fra racconti, riflessioni sulla poesia della memoria, occasioni di accenni critici senza che si cada nell’olla podrida del pezzo di bravura o dell’esercizio a mosaico. In quella prima parte la figura poetica del padre (il personaggio antieroico ed umano di una generazione generosa e civile) campeggia e si alterna senza stridore con i ritratti vivissimi di Campana o Binazzi, con le evocazioni liriche della madre e del dialetto bolognese sentito come persona, in un’unica atmosfera in cui la poesia della memoria si inibisce ogni esplicita dolcezza nostalgica che semmai si addensa nell’evidenza di alcuni particolari fra realistici e simbolici. «Recava infine, dai fornelli sfrigolanti, il tegame blu di smalto. – Senta, senta; sono le cotolette, le ho fatte io; se sono buone – . Col braccio grosso, invadente, disponeva le fette di carne, in un sugo arancione, sul piatto bianco. Si mangiava, in un silenzio mormorato di inezie; era già notte. Nella stanza, l’odore del tabacco e delle vivande. Le arance erano nella terrina di porcellana. E questo fu il tempo felice della mia vita». Quegli oggetti, tutta luce e colore, senza sforzo (anzi poco brillante, alla Morandi), son come il riscatto concreto di movimenti piú insistenti e aggrovigliati, in una prosa sempre minutamente densa di allusioni e di riferimenti critici, tramata a piccoli punti accostati.

Dentro quel cerchio sicuro, in quell’onda poetica di ricordo piú distaccato ed intero è piú facile comporre un’ideale antologia di personaggi, di piccole scene (la madre e l’operaio Calisto), di rapidi paesaggi sensuosi e lirici («Ecco l’autunno; la luce è fatta piú matura. Come un frutto prossimo a cadere, e che si fa tenero, anche se essa si macchia e si tinge, come le foglie gialle… L’estrema luce del giorno aumenta il cupo e carnale rosso delle case, delle torri, delle infinite tegole di Bologna. Le mura e il cotto, immersi in un’aria tiepida, respirano una specie di sensuale inquietudine…»), di interi capitoli in cui, nel generale procedimento di assiepare i temi quasi senza passaggio in superficie (cosí come nella tecnica del periodo i brevi membri e le immagini si accostano piú legati verso l’interno che in una costruzione orizzontale), preziose citazioni di versi portano aria e una musicalità esplicita che rinforza quella piú difficile e interna della pagina: come nel capitolo XI l’inizio incantato del Campiello goldoniano.

Nella seconda parte (dopo il crollo della Bologna socialista, la morte del padre e la fine della «Ronda») il libro appare meno continuo, quasi piú distratto da una memoria che sappia davvero creare profondità e dimensione poetica ai singoli ricordi. Il senso degli anni della dittatura e della solitudine non ha piú la fusione sicura di prima e le pagine stesse della prigione o del mitragliamento del trenino (assai belle quest’ultime, ma troppo isolate) o quella della liberazione mancano di quella impressione di continuità senza nesso esteriore in cui si erano staccate e immerse le immagini e i sentimenti nella prima parte. Quella specie di risurrezione agli impegni di una Italia popolare che riprende il suo sviluppo e a quelli di una letteratura spregiudicata e ricchissima di coscienza letteraria, che pare implicita nelle ultime pagine, nel ritorno alla vita politica e alla speranza, non porta in concreto la freschezza e la continuità poetica di prima.

Una limitazione che ci conferma l’impressione che la fortuna di questo libro sta proprio nel singolare incontro di una esperienza letteraria estremamente scelta e tecnica (l’esperienza di un rondista arricchito di ulteriori letture “europee”) e di una esperienza di vita fortunatamente continua, storica nella duplice direzione di una carriera di letterato e di una vicenda di figlio del popolo nella compatta età del socialismo prefascista. Sui limiti calligrafici di una letteratura viva soprattutto fra le due guerre, “moderni” e “antifascisti”, secondo l’intonazione polemica dell’agente della ferriera aspirante industriale di una bella pagina raimondiana, sono appunto due termini che in quel libro indicano una esperienza italiana essenziale, una direzione di gusto e di moralità a cui Raimondi deve la sua vivacità, anche se naturalmente è proprio in forza del suo stile educatissimo e originale che egli ci ha dato una misura cosí piena del suo ingegno di scrittore.

Dai saggi di «Raccolta», dai volumi rondisti, dai pezzi di critica di «Giornale», un cammino di stilista senza tentazioni si è svolto sino a Giuseppe, ma qui la sua arte è maturata in strati piú fondi, in un calore poetico e umano piú intero e piú fortemente controllato.